“Tentare di rianimare il marxismo, l’anarchismo, o il sindacalismo rivoluzionario, dotandoli di un’immortalità ideologica, sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un importante movimento radicale. Occorre una nuova prospettiva totalmente rivoluzionaria, che sappia affrontare in modo coerente i vari argomenti che possono condurre la gran parte della società a opporsi in modo efficace al sistema capitalista, un sistema che appare in continua evoluzione e cambiamento”. Così scriveva Murray Bookchin, ma il suo discorso non è particolarmente originale: senza andare molto indietro nel tempo, almeno dagli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino è diventato una sorta di topos letterario invocato soprattutto da ex marxisti ma anche all’interno del cosiddetto “postanarchismo”.
Io invece credo che il discorso di Bookchin e di tutti quelli che lo hanno preceduto ed eventualmente seguiranno non sia valido, per vari ordini di motivi che qui proverò ad elencare ed argomentare.
Il primo ordine di problemi è il seguente. Sono partito dalla frase di Bookchin perché in poche righe condensa sia la tesi sia il suo fondamento: egli – ma non è affatto il solo – crede nella bufala che il capitalismo racconta di se stesso – “un sistema che appare in continua evoluzione e cambiamento” – nascondendo dietro la favola del “nuovo che avanza” il vecchio che ritorna (anzi che non se n’è mai andato…). Ora negli ultimi tempi sono largamente circolati nell’ambito non solo radicale ma della sinistra in generale molti testi – ricordo qui solamente “Il Capitale nel XXI secolo” di Piketty[1] e “Debito” di Graeber[2] – che avrebbero dovuto decostruire ampiamente questa costruzione ideologica e mistificatoria, che rovescia la realtà delle cose presentando chi porta davvero “un mondo nuovo dentro di sé” come una sorta di reazionario e lo staticissimo e vecchio stato presente delle cose come intrinsecamente “rivoluzionario”. Si vedono come assolute novità cose come i poteri finanziari, le Multinazionali, il fatto che il nemico sia divenuto “senza volto”, la dipendenza “indici di borsa”, ecc. che sono vecchi come il cucco e che appaiono “il nuovo che avanza” solo nella mitopoiesi del capitale.
Una mistificazione, questa, aiutata molto da determinati errori di valutazione di Marx sulle novità effettive del capitalismo industriale relativamente alle precedenti forme di produzione, che lo porta – gli esempi più noti sono nel “Manifesto del Partito Comunista” – ad elogiare sperticatamente il mondo del capitale come, per l’appunto, “rivoluzionario”:
“La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. (…) Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. (…) Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. (…) Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari.”[1]
Di conseguenza, poiché Bookchin – come inizialmente Marx ed in seguito troppi altri – accetta questa narrazione mitologica del capitale su se stesso, non può che derivarne l’idea che le ideologie ad esso antagoniste, mutato l’oggetto, siano divenute sorpassate e di “ostacolo allo sviluppo di un importante movimento radicale”, per cui “occorre una nuova prospettiva totalmente rivoluzionaria”. Detto per inciso, anche ammesso e non concesso che tale tesi fosse vera, si tratterebbe comunque di una sorta di paradosso pragmatico: non si saprebbe cioè a quale scopo operare una tale ridefinizione concettuale, dato che nel momento in cui questa si sarà sviluppata il suo ineffabile oggetto sarà ulteriormente cambiato rendendola altrettanto inutile.
Come dicevamo in precedenza, oggi sappiamo da indagini scientifiche ed empiriche precise che marxismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario hanno avuto a che fare esattamente con le stesse dinamiche del capitale che vediamo in azione attualmente: di conseguenza, se erano corrette o sbagliate all’epoca lo saranno anche oggi e viceversa. Nell’analisi fattuale, di una di queste – il marxismo – dire che si è mostrato largamente incapace di superare il capitalismo è un eufemismo, essendosi dimostrato il più grande puntello del capitalismo nel XX secolo, distruggendo il movimento operaio e rivoluzionario per poi rifluire dal capitalismo di stato al capitalismo neoliberista più feroce. L’anarchismo, invece, pur nelle sue forze limitate, è riuscito quantomeno a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni oppresse: ispirando le lotte e le organizzazioni più radicali del movimento operaio nel periodo della Seconda Fase della Rivoluzione Industriale e durante i “trent’anni gloriosi” – cosa solitamente poco notata – portando le maggiori conquiste sociali proprio dove le dimensioni relative dell’anarchismo sul marxismo erano a favore del primo (e viceversa: si pensi alla differenza tra la Svezia e l’Italia del “grande Partito Comunista”). Dove poi è giunto ad esperienze rivoluzionarie – in Messico, in Ucraina, in Spagna – abbiamo a che fare con gli unici eventi storici che oggi si possano citare a favore della realizzabilità effettiva di una società comunista.
Discorsi come quelli di Bookchin, perciò, nel suo appello alla ricerca di una “nuova strada”, fa dimenticare tutto questo e toglie ai movimenti rivoluzionari fondamentali momenti di riflessione teorica sulle strade controproducenti e su quelle che, invece, un minimo di frutto l’hanno dato e continuano a darli – Zapatismo e Rojava insegnano.[4]
Enrico Voccia
NOTE
[1] PIKETTY, Thomas, Il Capitale nel XXI Secolo, Milano, Bompiani, 2016.
[2] GRAEBER, David, Debito, Gli Ultimi Cinquemila Anni, Milano, Il Saggiatore, 2012.
[1] Vedi Capitolo I – “Borghesi e Proletari”, in https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-1c.htm .
[4] Occorre in merito alla questione del Confederalismo Democratico che si sperimenta nel nord est della Siria, precisare che il Bookchin che ha influenzato Ocalan era, per motivi banalmente temporali, quello “preconversione” al “post anarchismo”. Ocalan, infatti, che è un notevole intellettuale, non aveva certo bisogno di essere indottrinato sul marxismo: se qualcosa gli ha potuto dare Bookchin sono state le idee anarchiche.